Il “contandin che scrive”
Diego Stefani, pugnace e orgoglioso coltivatore e oste, è il poeta delle radici: quelle di piante, uomini e storie che sono profonde e forti

Di Marina Grasso
Asa che i dighe/che al contadinh le tramontà/che i ride dele tô fadighe/i se acordarà anh bei dì/co no ghe sarà pì la tô manh/alora sì/sarà finì anca al panh.
(Lascia che dicano/che il contadino è tramontato/che ridano delle tue fatiche/si accorgeranno un bel giorno/quando non ci sarà più la tua mano/allora sì/sarà finito anche il pane).
Diego Stefani racconta così il suo orgoglio di contadino. E lo fa con la forza evocativa dei versi, con la dolcezza aspra del suo dialetto, quello di Combai, antico borgo arroccato tra boschi e vigneti a pochi chilometri da Valdobbiadene.
Diego a Combai c’è nato, nel 1947, e raramente se ne è allontanato. Perché lui è un contadino, legato alla sua terra. E perché lui è un oste, fin da quando è nato in quella che era allora la locanda “Al Cacciatore” e che lui, con la sua amata Carla, ha trasformato nel 1972, in “Ostaria al Contadin”. Ma, soprattutto, Diego è un poeta (definizione cui lui preferisce quella di “contadin che scrive”) che da sempre si esprime in versi sia per diletto sia quasi per necessità. Versi che dapprima ha condiviso solo con gli amici; poi inserendo i testi delle sue poesie nelle etichette dei suoi vini e nei menu della sua trattoria; quindi recitandoli in sale e teatri, raccogliendoli in un libro. Sono versi semplici, i suoi, descrittivi ma mai didascalici. Sono istantanee fatte di parole che scorrono sul filo della sua memoria, che è quella di un uomo che nonostante le tante difficoltà affrontate continua a dare valore alle piccole cose quotidiane e agli affetti familiari, ma anche a quel patrimonio di solidarietà, armonia e consapevolezza che caratterizzano la vita di un piccolo paese come Combai. Un borgo nel quale, secondo Stefani, Dio è Padre e la Terra è Madre. Dove le radici di piante, uomini, storie e poesie sono comuni, profonde, forti.
Diego quelle radici le conosce bene, non solo perché le coltiva nei suoi campi, ma perché le vive ogni giorno con la sua umiltà e sensibilità. Con il coraggio di chi, qualche tempo fa, ha deciso di rivalutare il Verdiso, vitigno autoctono quasi sempre utilizzato solo nella produzione di Prosecco, vinificandolo in purezza e dando il via – all’epoca contro il parere dei più – ad un’autentica renaissance di quest’uva antica, e realizzando un vino oramai affermatosi come una delle espressioni più tipiche dell’enologia dell’Alta Marca.
Ma non si è fermato, il poeta contadino. E più recentemente nella sua terra tutta dominata dalla coltivazione di uve a bacca bianca che concorrono alla realizzazione del Valdobbiadene Conegliano Docg, ha cominciato a produrre Merlot e Cabernet per creare il “500”, che mutua il suo nome dall’altitudine alla quale si trovano i vigneti. E a 500 metri dal livello del mare, condizione quasi estrema per la vite, grazie anche all’impegno congiunto di tutta la sua famiglia, la sua azienda agricola (“Crodi”) produce un vino rosso dalle caratteristiche esclusive.
Perché Diego è caparbio e orgoglioso del suo mestiere, delle sue mani che affondano quotidianamente in una terra che ama e che rispetta profondamente (con pochissimi interventi fitosanitari e grande razionalità applicata alle coltivazioni), della sua famiglia assieme alla quale ha creato una realtà unica nel suo genere. Fatta di poesia e fatica, di coraggio e di curiosità. Di semplicità e di solidità, come la piccola porta di legno che si apre nell’antico muro di pietra per accedere nel mondo della sua osteria, accogliente e sincero, oggi condotto brillantemente dalla figlia Laura ma dove l’amore e la dedizione di Diego e Carla continuano ad essere presenti, pulsanti. Ad essere poesia da scoprire e da gustare.
[Articolo originariamente pubblicato sulla rivista Visit Conegliano Valdobbiadene Primavera Estate 2022. L’intero numero è disponibile qui]