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Storie  

L’arte del “far su”

Sapori e tradizioni dei salumi prodotti in casa, simbolo dell’ospitalità tra i colli del Conegliano Valdobbiadene
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Tra i colli di Conegliano e Valdobbiadene, “pan e sopressa” non indica solo uno spuntino, ma è sinonimo di semplicità. Significa anche essere schietti e diretti, proprio come i due sapori che nel loro accostamento sono un vero e proprio modo di dire. Ma anche di vivere. Perché non è un caso se le fragranti bollicine di questi colli si degustano con pane e sopressa in segno di benvenuto nelle cantine così come nelle osterie, e anche i ristoranti più blasonati interpretano secondo creatività questo felice abbinamento: la sopressa è, infatti, uno dei prodotti più radicati nell’identità della pedemontana trevigiana.

Pur se meno celebre di quella vicentina, che si fregia anche del marchio Dop, la sopressa trevigiana (con una sola “p”, perché l’abitudine di eliminare le doppie nel parlato, da queste parti, diventa anche grafia) ha una lunga tradizione e – come i musetti, i salami ed altri insaccati – è sempre stata prodotta in casa dalle famiglie che avevano la fortuna di possedere il bene più prezioso: il maiale. Prezioso perché, si sa, di lui non si butta via niente. Ma prezioso anche perché la sua secolare presenza nella vita agricola ha consentito di mettere a punto tecniche di conservazione – salatura, affumicatura, essiccatura – che consentono di accumulare, anche per lunghi periodi, preziose e gustose scorte alimentari, variabili secondo le diverse tradizioni locali e spesso diverse anche da famiglia a famiglia.

Tradizioni di cui è profondo conoscitore Danilo Gasparini, docente di Storia dell’Agricoltura dell’Alimentazione all’Università di Padova che, nelle sue innumerevoli ricerche sul patrimonio agroalimentare della pedemontana trevigiana, indaga sulla tipicità delle produzioni e sulle loro origini.

È lui a spiegare il quanto la tradizione del salume “de casada”, ossia prodotto in casa, sia molto più di un’abitudine alimentare. “Tra gli insaccati, i due prodotti più tipici nell’Alta Marca sono la sopressa e la bondiola, anche nella sua variante col lengual, ossia con un pezzo di lingua salmistrata al centro – spiega – tradizionalmente confezionati da ciascuna famiglia con l’aiuto di un esperto locale del far su, che in realtà significa smontare l’animale per destinare ciascuna parte al consumo fresco e, soprattutto, alla realizzazione di salumi e insaccati”.

“Un tempo, gli esperti becheri, ossia coloro che conoscevano bene l’arte del far su, erano numerosi, anche perché la macellazione casalinga del maiale avveniva, quasi simultaneamente in tutte le famiglie, nel periodo più freddo dell’anno – tra dicembre e gennaio – per assicurare la migliore conservazione della carne da lavorare. Un periodo di tempo ristretto che richiedeva quindi una nutrita manodopera qualificata, aiutata per le operazioni più semplici dagli uomini di casa, per rendere possibile osservare il termine tradizionale imposto alle operazioni, ossia il 17 gennaio. Giorno che il calendario consacra a sant’Antonio Abate, chiamato anche sant’Antonio del porcello perché raffigurato con un maiale ai suoi piedi”.

Mutate le condizioni culturali e sociali, non sono molti gli allevatori che macellano in casa i propri maiali e producono insaccati “de casada”, destinati al solo consumo privato come dettano le norme sanitarie attuali. “A dire il vero non sono nemmeno molti coloro che allevano maiali in casa – specifica Gasparini – ma è una pratica ancora piuttosto diffusa soprattutto tra i malgari, ossia gli allevatori di bovini che nella bella stagione portano gli animali all’alpeggio nelle malghe della pedemontana trevigiana. È piuttosto frequente, infatti, trovare vicino alle stalle il ricovero dei maiali, che così per alcuni mesi osservano una dieta alpina di grande valore, poiché vengono nutriti con il latticello, ossia il residuo della produzione dei formaggi di malga. Che, proprio come questi ultimi, profuma delle erbe e dei fiori dei pascoli, nutrendo quindi adeguatamente i maiali, ma anche ammorbidendo e profumandone la carne. Da una virtuosa economia rurale improntata, come sempre, ad annullare gli sprechi, nasce quindi uno dei “segreti” per ottenere insaccati teneri e aromatici. Anche se, poi, una parte considerevole della responsabilità sulla qualità di sopresse e affini sarà di chi farà su le loro carni e di chi le saprà far maturare in ambienti adeguati”.

Perché, è bene sottolinearlo, in quelle grandi e spesse fette di sopressa de casada simbolo dell’ospitalità tra i colli del Conegliano Valdobbiadene, ci sono mesi di pazienti attenzioni e di attese, lunghi processi artigianali e grande attenzione alla conservazione, da sempre principale problema del consumo di carne.
Cui la produzione industriale (spesso di eccellente qualità) ha certo impresso maggior sicurezza e tutela, ma ha anche tolto – diciamolo – qualche profumo e qualche sapore. Ed anche un po’ di poesia.

[Articolo originariamente pubblicato sulla rivista Visit Conegliano Valdobbiadene Autunno Inverno 2017. L’intero numero è disponibile qui]